Commento al Vangelo di fra Vincenzo Ippolito ofm
FESTA DELLA SS.TRINITÁ (Anno A) – 4 giugno 2023
Dio ha mandato il Figlio suo perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Dal Vangelo secondo Giovanni (3,16-18)
16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
Dopo la Pentecoste, prima di inoltraci nel Tempo Ordinario, con la liturgia domenicale, la Chiesa fissa la sua attenzione sul mistero della santissima Trinità e sul sacramento dell’Eucaristia. Diversamente da quanto solitamente la liturgia ci propone, queste due feste non ricordano un momento particolare della storia della salvezza, un evento preciso nel quale Dio ha rivelato la potenza della sua misericordia – si pensi al Natale del Signore o anche al giorno della Resurrezione di Cristo– ma una verità di fede. La santissima Trinità è, infatti, il primo dei due misteri principali della nostra fede (il secondo è Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo) e celebrarlo significa andare alla sorgente della vita divina che la Pasqua ci ha rivelato e donato in pienezza.
La sacra Scrittura presenta il graduale cammino di rivelazione del volto di dio. Una di queste tappe è data proprio dall’esperienza che il popolo d’Israele fa nel cammino dall’Egitto alla terra promessa. Difatti, la Prima Lettura, tratta dal libro dell’Esodo (34, 4b-6. 8-9), presenta Dio che si rivela a Mosè la sua gloria. È la storia che ci fa comprendere chi è Dio, da quanto Egli compie per la nostra salvezza possiamo comprendere il suo amore e accogliere la sua misericordia. Dinanzi alle meraviglie che il Signore opera, diventiamo voce del profeta Daniele, con il Salmo responsoriale (cf. Dn 3,52.56), per benedire Dio e glorificare il suo nome, mentre la Seconda Lettura ci dona il saluto finale della Seconda Lettera ai Corinzi (13,11-13), nella quale l’apostolo Paolo si rivolge ai credenti, invocando la santissima Trinità. Nel Vangelo (cf. Gv3,16-18), è Gesù stesso che, compiendo il cammino del popolo, dalla creazione, rivela a Nicodemo il mistero di Dio e si pone come unico mediatore per conoscere il suo vero volto.
Gesù Cristo, rivelatore del volto di Dio
Noi crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, in Gesù Cristo, suo unico Figlio e nostro Signore, nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita. È questa la professione di fede della Chiesa. Approfondirla razionalmente è possibile, anzi è necessario, mai però credere che la nostra mente possa esaurire, attraverso i concetti, l’infinità essenza di Dio. La prima cosa da fare è quindi riconoscere la nostra creaturale debolezza, aprendosi nella fede a riconoscere nel suo rivelarsi la strada maestra per entrare in relazione con Lui. Se non è Dio a farsi conoscere, continueremo a brancolare nel buio e i nostri tentativi di raggiungerlo, rimarranno sempre inconcludenti. Potranno giungere al Dio dei filosofi e dei sapienti, ma non al Dio di Gesù Cristo che è un dato di pura rivelazione e quindi di gratuito dono d’amore da parte sua. Anche il nostro approccio ai Vangeli potrebbe essere inficiato da una tale mentalità. Se così fosse, ci troveremmo però fuori strada, perché è inutile aspettarsi che il Vangelo parli, con idee chiare e distinte, del mistero del nostro Dio, uno e trino insieme, dal momento che manca in essi un’esposizione sistematica sui misteri della fede. La Scrittura, infatti, non è un testo di catechismo, né un manuale di teologia, quanto, invece, il racconto della vita condivisa con il Signore, trasmesso perché susciti in noi la fede. L’evangelista Giovanni narra, infatti, l’esperienza dei discepoli con Gesù, descrive delle concrete situazioni, trasmette le parole del Maestro in eventi determinati. In questo modo, ogni lettore è invitato ad entrare nella dinamica narrativa del testo e a rivivere l’esperienza dei chiamati, seguendo le tappe che hanno scanditola loro sequela. Nei Vangeli troviamo professioni di fede utilizzate durante il battesimo (cf. Mt 28,19), ma ancor di più ci viene raccontata la relazioni che Gesù vive con Dio Padre, nella forza dello Spirito e, al tempo stesso, ci è offerto di entrare nella vita trinitaria, attraverso il mistero pasquale di Cristo.
La Scrittura non ci dice tanto chi è Dio, assecondando il nostro desiderio di sistematizzazione razionale, ma cosa Dio opera per la salvezza dell’uomo e da ciò che Egli fa e dice velatamente di sé, intravediamo la sua natura che, in quanto mistero divino, non è possibile intendere in pienezza ed esprimere con le nostre parole umane. Siamo chiamati a fare esperienza di Dio, a camminare con Lui, come i discepoli, lasciando che la sua parola illumini i passi della nostra vita, svelandoci il mistero insondabile della sua natura. L’uomo non può parlare di Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo se la conoscenza di tale mistero non gli viene rivelato da Gesù Cristo che ha di Dio una conoscenza diretta. Noi, infatti, parliamo del nostro Dio, del mistero della sua unità, della comunione delle Tre divine Persone perché è Gesù che ci introduce in Dio, donandoci la forza del suo Spirito che ci prende per mano e, illuminando i nostri cuore, ci guida alla verità tutta intera. Il cammino della nostra vita parte dall’incontro con Gesù Cristo ed è Lui a condurci al Padre e a farci dono del suo Spirito per essere tempio ed abitazione dell’amore suo per ogni creatura. Tutto passa per Gesù, senza di Lui non solo non possiamo far nulla, ma neppure riusciamo a balbettare qualcosa di sensato del suo mistero d’amore eterno.
Nella notte insieme con Nicodemo, per ascoltare Gesù
Il brano del Vangelo odierno – si tratta di appena tre versetti, ma densissimo per contenuto e bellezza, oltre che per la straordinaria luce di rivelazione che donano sul mistero del nostro Dio – è parte integrante di un brano più ampio (cf. Gv 3,1-21), nel quale l’evangelista Giovanni narra l’incontro di Gesù con Nicodemo, un fariseo, capo dei Giudei, di certo influente, se lo troveremo in seguito con i sacerdoti di Gerusalemme (cf. Gv 7,45-52). Egli, di notte, va dal Maestro di Nazaret perché sente il bisogno di parlargli, di ascoltare la sua parole, di abbeverarsi alla fonte di quella dottrina che incanta le folle. Per non essere visto, va da Gesù con il concorso delle tenebre, ma il vero buoi che lo spinge è la notte che si porta nel cuore e sembra non dargli pace. Con la sua predicazione, Gesù avrà smosso il suo animo, facendo riemergere forse l’antico desiderio di autenticità e di verità che lo aveva condotto tra i farisei. Nicodemo ha bisogno di aprire il suo cuore a Cristo, per ricevere indicazioni concrete e precise sulla via da seguire verso la verità.
Alla lettura attenta dell’intero capitolo, ci rendiamo conto che la narrazione dell’evangelista Giovanni è ben costruita e articolata. Dopo una breve introduzione (cf. Gv 3,1-2a), è Nicodemo a mettere in moto il dialogo, anche se Gesù, quasi interrompendolo, offre il vero argomento del confronto. Il nascere dall’alto (Gv 3,3) è il filo rosso dell’intero discorso, nel quale le due domande di Nicodemo (cf. Gv 3,4.9) segnano lo spartiacque tra il tema dello Spirito (cf. Gv 3,5-8) e quello del Figlio dell’uomo che innalzato sulla croce rivela il mistero di Dio per chi crede (cf. Gv 3,10-15). Nell’ultima parte, Gesù apre lo scrigno del cuore del Padre e dona di comprendere, nel dono del Figlio, l’amore che sempre muove il Padre. È come se Nicodemo venisse guidato dal Maestro a penetrare nel mistero del Dio Trinità, in un ideale itinerario scandito da tre tappe, nella potenza dello Spirito, per Gesù Cristo al Padre. Il nascere dall’Alto, per la grazia dello Spirito, è dono del Padre attraverso il suo Figlio Gesù, consegnato all’abbraccio della croce. È questa la dinamica che scandisce la vita di ogni discepolo. Il brano termina senza che ci sia una reale conclusione. Il discorso resta appeso, quasi offrendo a Nicodemo la possibilità di rispondere a Gesù in seguito. Saranno le pagine successive ad indicarci come le parole del Maestro siano state incisive nel cuore del fariseo, determinando prima il suo difendere Gesù dinanzi ai capi dei Giudei (cf. Gv 7,45-52) e poi l’offerta di quanto occorreva per la sua sepoltura (cf. Gv 19,39).
Vivere la bellezza dell’amore
Del racconto dell’incontro notturno di Gesù con Nicodemo, in sé ampio e ben strutturato (cf. Gv 3,1-21), la liturgia ci offre appena tre versetti (cf. Gv 3,16-18) che rappresentano i passaggi nevralgici nei quali il Rabbì di Nazaret rivela il mistero del Padre e del suo amore ed indica nella fede la risposta dell’uomo a Dio che gli viene incontro, precedendolo nell’amore e nel dono. A Nicodemo Gesù fa conoscere Dio come amore che si manifesta nel dono. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito” (Gv 3,16). Amore e dono sono due categorie fondamentali nell’esperienza umana. Un amore che non conduce al dono è puro egoismo, perché basta a se stesso e non ricerca nell’altro se non il personale tornaconto. Un amore poi che attrae l’altro, ma non si dona all’altro, non è vero, perché in sé l’amore implica il movimento di uscita da sé, il lasciare le proprie posizioni perché il dono di se stesso all’altro, lo arricchisca e lo migliori. Amare per Dio è l’esigenza più intima del suo cuore ed in Lui l’amore è sempre scandito dal dono, perché se così non fosse il suo sarebbe egoismo, quindi amore imperfetto, non amore per essenza, per natura. Dio ama e quindi dona, perché l’offerta di sé è il naturale compimento dell’amore, dal momento che solo se si giunge al dono, si può dire di amare veramente. Dio Padre non gioca mai al risparmio perché egli ama tanto, nell’infinità capacità del suo essere Dio e proprio perché ama tanto, dona tutto. La stessa logica scandisce anche i nostri rapporti e l’amore che ci scambiamo nelle nostre relazioni. Non si può dire di amare tanto, se non si dona tutto. La parola dell’amore deve essere tradotta nella quotidianità dell’offerta totale di se stesso. Perché l’affetto sia vero, devo offrire alla persona che dico di amare il mio cuore e la mia mente, i sentimenti ed i pensieri miei devono essere attraversati dal desiderio struggente di orientare ogni cosa al suo vero bene. L’amore sviscerato che Dio Padre nutre per l’uomo lo porta a dare il suo Figlio, il suo unigenito. È la grandezza dell’amore effuso la ragione della totalità del dono. Chi dona poco significa che tiene qualcosa per sé e, quindi il suo amore non è totale, non è pieno, non è incondizionato, non è scandito dalla gratuità. Il dono totale non riguarda delle cose che si possiedono, ma ciò che si è. Chi ama si dona, non solo nelle cose che liberamente concede alla persona che dice di amare, ma nella totalità del suo essere, del suo pensare. L’amore permea l’essere di chi ama e lo rende dono nella vita dell’altro. Il Padre si dona in totalità nel Figlio che, incarnato per opera dello Spirito-amore,è il segno più grande di quanto il Padre ci ama. Ecco perché Cristo mai si ritrae dinanzi all’esigenza di rivelare l’amore, perché Egli è il dono smisurato dell’amore del Padre per ogni creatura. Chi vede ed incontra Lui è chiamato a fare esperienza del gustare e vedere com’è buono il Signore (Sal 34,9).
Gesù introduce Nicodemo nel mistero dell’amore di Dio Padre, nel vortice della sua misericordia, nella fornace ardente della sua intimità perché chi veramente ama si rivela e non può nascondersi alla persona amata. Prima che il suo cuore venga trapassato dalla lancia del soldato, il Signore apre la sua intimità alla contemplazione dello sguardo estatico di Nicodemo e non ha paura né di rivelarsi, né di non essere compreso, ma si fa conoscere, manifestandosi come amore. Amando Dio si fa conoscere. Nicodemo può comprendere Dio incontrando l’amore che Cristo gli comunica, ascoltando la sua voce che è tenerezza, accogliendo il suo sguardo che è cura gratuita e potenza di guarigione. Non è importante il farsi conoscere come amore – anche questa potrebbe essere talvolta una ricerca del proprio tornaconto, della propria gratificazione – ma mostrare all’altro che l’amore che si dona e rivela gli è necessario per vivere. Sentirsi amato – è questa la scoperta che deve fare ogni uomo – significa scoprire che non si può vivere senza l’amore che l’altro nutre per noi, sentirsi amati significa respirare grazie al dono che l’altro liberamente fa di se stesso. Nicodemo potrà capire con la mente che Dio lo ama, solo se il cuore suo conterrà la misericordia che Cristo gratuitamente gli effonde. L’amore non è solo esigenza di chi ama, ma è una possibilità anche per chi si sente amato, possibilità per crescere e maturare, per guardarsi in modo diverso e per ricambiare il dono che l’altro sta facendo di se stesso.
Quanto è importante entrare con più consapevolezza nella circolarità dell’amore di Dio Padre! Con più impegno, come Nicodemo, nelle notti del cuore nostro, dobbiamo rivolgerci a Cristo perché Egli ci introduca nel mistero dell’amore trinitario, nella scoperta della bellezza del volto del Padre, nella docile accoglienza dello Spirito-amore che rinnova con la sua potenza l’universo. Credere nella santissima Trinità significa accogliere e professare la potenza dell’amore che crea rapporti veri, relazioni profonde, comunione sincera, unità perfetta nella diversità, nel volere e nell’operare, nel pensare e nell’agire. Le nostre famiglie sono chiese domestiche se vivono della potenza di questo amore, se giorno dopo giorno accolgono la sfida della relazionalità, se offrono a Dio la propria creaturalità perché riveli la potenza dell’amore suo che guarisce e risana. Nei nostri rapporti, se il dono è assente o non è totale, significa che la fiamma dell’amore non affonda il proprio stoppino nella quantità smisurata dell’olio dell’amore che sgorga dal frantoio della croce. È lì che Cristo, olivo del Padre, è spremuto nella morsa della volontà di donarsi fino alla fine per effondere quel balsamo che brucia sul lucernario e fa luce a tutti coloro che sono nella casa di Dio che è la Chiesa. È necessario andare da Cristo, come Nicodemo, perché Egli ci indichi la strada dell’amore e ci insegni come il dono sia il segno della maturità dell’affetto. Non basta dirsi a parole l’amore e neppure scriverlo. L’amore non si calcola per il numero delle parole usate o per le volte in cui lo si dice, perché lo si esprime nel dono che l’altro può anche non accogliere e non riconoscere, rifiutare o disprezzare, proprio come è capitato a Gesù. Non è l’accoglienza la verifica della verità dell’amore che si fa dono. Ciò che rende vero l’amore che si traduce in dono è l’intenzione che lo anima, il desiderio che lo muove, l’ansia che lo spinge.
Credere nell’amore, per accogliere e vivere il mistero di Dio
Il passaggio successivo alla scoperta dell’amore di Dio Padre che si rivela nel Figlio unigenito è il credere in Lui per avere la vita eterna (cf. Gv 3,16). Il discepolo è, infatti, chiamato non solo a godere del dono del Padre nell’amicizia con Cristo, ma anche a rispondere con la fede all’esperienza del suo amore. È questa la cosa più difficile per chi è abituato a vivere i rapporti assecondando il proprio egoismo, senza lasciarsi smuovere dall’affetto che l’altro nutre, anzi chiedendo il rapporto nella gabbia delle proprie pretese. Siamo chiamati a credere all’amore di Cristo, ad abbandonarci alla potenza della sua misericordia, a confidare nella presenza della sua tenerezza, a lasciarci custodire dalla sua mano, proteggere dal suo braccio santo. Se il discepolo ha sperimentato l’amore di Cristo e il suo affetto è penetrato nelle parti più intime del suo animo, se ha poggiato, come il Discepolo amato il suo capo sul petto del Signore, allora non potrà non fidarsi dell’amore di Gesù, lasciare che dilaghi nella sua vita, inondi la sua mente e pervada volontà e sentimenti, affetti e pensieri. L’evangelista Giovanni, proprio perché ha fatto esperienza della portata immensa dell’amore del Maestro, confiderà “Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16).
L’unica risposta all’amore è la fede nella potenza dell’amore che vince la nostra paura e ci fa essere creature nuove, aperte alla relazione e al dialogo, allo scambio e al dono ricevuto ed offerto. È il credere all’amore che permette di non incappare nelle maglie della morte, è il fidarci dell’amore che abbiamo sperimentato a strapparci dal grigiore di una vita che sembra sempre uguale, è il credere all’amore che Dio ha per noi a motivare il nostro impegno e a spingere i nostri passi sulla strada di Dio. Credere all’amore significa affidarsi all’amore, di Dio e della persona che mi sta accanto, abbandonarsi al suo abbraccio e alla sua cura, accettando, di buon grado, il suo modo di amarmi e di prendersi cura di me, non imponendo e pretendendo di essere amati come a noi piace. Credere all’amore di Dio significa accogliere la sua modalità di amarmi, i tempi che Egli sceglie per rivelarsi al mio cuore, per comunicarsi come balsamo che guarisce e risana le ferite dell’anima. Anche tra noi, le relazioni scandite dalla pretesa dimostrano un amore non puro, autentico e maturo perché devo accogliere anche i tempi di cui l’altro ha bisogno per maturare. Amare significa non voler essere al centro della vita dell’altro – questo è l’amore egoistico di un bambino, non quello maturo di un adulto – ma avere l’altro al centro del proprio cuore, nella cura e nel dono.
Maturare nell’amore, in ogni rapporto di coppia, familiare e di amicizia, è un passaggio che non dipende dagli anni e neppure dalle esperienze che possono anche passarmi addosso, come l’acqua sulle pietre, senza scalfirmi. Devo voler vivere e credere nell’amore, devo lasciarmi portare dall’amore, devo fidarmi dell’amore che Dio e gli altri mi donano. Vincere la diffidenza, far tacere le voci dei dubbi e delle perplessità, esige un continuo cammino di purificazione, tenendo sempre lo sguardo fisso su Gesù, che dell’amore è la sorgente e del dono il Maestro. L’amore di Dio da noi accolto rifugge la morte perché la vince e la supera, donando l’eternità come capacità di amarsi senza limiti di spazio e di tempo. Noi siamo fatti per l’eternità, per amare ed essere amati in modo infinito. Questo, nella forza dello Spirito, siamo chiamati a vivere già qui in terra, se credendo all’amore ci facciamo abitare dall’amore. È questa la vocazione cristiana che accomuna sposi e consacrati e presbiteri, perché solo l’amore dona senso alla nostra vita e ci rende immagine e somiglianza di Dio. Chi ama, si dona, chi ama crede nella potenza dell’amore e si lascia portare dalla sua forza, chi ama vuole la vita in pienezza per l’altro/a, chi ama non condanna e si offre come strumento di salvezza e di redenzione.
La nostra vita, dimora della Trinità
Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Il segno di croce è come l’alfabeto della nostra vita di fede in famiglia. Lo impariamo da piccoli, dalla mamma o dal papà, quando le parole non sanno ancora ben accompagnare i gesti, e rappresenta la compagnia delle Tre divine Persone nella nostra vita. Gesti semplici – mani che si intrecciano con il corpo – parole di uso comune – padre, figlio, spirito – che stanno ad indicare in Dio la perfetta unità nella diversità incancellabile dell’identità personale. Il segno di croce accompagna la vita della famiglia fin dal suo nascere: l’anello nuziale è scambiato nel segno della Trinità” – “…ricevi questo anello, segno del mio amore e della mia fedeltà. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” – ed il primo gesto del Battesimo è proprio il segno di croce dei genitori e dei padrini, dopo quello del presbitero, sulla fronte del neonato presentato al fonte. Tutto è fatto nel nome della Trinità, nella sua grazia, nel suo amore, nella potenza del suo dono, nella capacità sua di legarci nel dolce vincolo del per sempre!
Gesù oggi ci invita a divenire esperti di relazione, mostrando agli altri, come Lui fa con Nicodemo, la strada della tenerezza di Dio anche a coloro che brancolano nel buio. Siamo chiamato a vivere, soprattutto in questi nostri difficili tempi – ci sono mai stati tempi non difficili? – e a testimoniare la bellezza dell’unità che si costruisce considerando le diversità opportunità di comunione, possibilità di accoglienza ed incontro.