Cristo è l’acqua per la nostra sete

Commento alla Prima Lettura di fra Vincenzo Ippolito ofm
III Domenica di Quaresima (Anno A) – 9 marzo 2023

Dacci acqua da bere

Dal libro dell’Esodo (17,3-7)
3In quel luogo il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: “Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?”. 4Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: “Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!”. 5Il Signore disse a Mosè: “Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! 6Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà”. Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. 7E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”.


Il tema dominate della liturgia della Terza Domenica di Quaresima è la sete d’acqua viva che consuma l’uomo, figura del desiderio di Dio che l’anima vive. Nella Prima Lettura, tratta dal libro dell’Esodo (17,3-9), il popolo d’Israele, peregrino nel deserto, soffre per la sete e rivolge a Mosè il suo lamento per la mancanza di acqua. Dio, mai sordo alle preghiere di chi lo invoca, concede l’acqua, per l’arsura dei suoi figli. L’evento di Massa e Meriba è ripreso dal Salmo 94, in parte offertoci come Salmo responsoriale. L’orante invita il popolo ad ascoltare la voce del Signore, senza indurire il cuore, perché solo la fede spinge Dio a compiere meraviglie. Nella Seconda Lettura, tratta dall’Epistola ai Romani, l’apostolo Paolo presenta il dono della grazia divina, segno della giustificazione ricevuta per la fede. Lo Spirito Santo effuso nei cuori e la morte di croce di Gesù sono il segno dell’amore di Dio, che sempre accompagna la vita dell’uomo. Il Vangelo (cf. Gv 4,5-42) con il dialogo di Gesù con la Samaritana, sembra che raccolga i fili delle varie letture biblici, per mostrare in Cristo l’acqua viva che disseta, la sorgente dello Spirito Santo, che ci rende nuove creature.

Il popolo mormora, quando i suoi occhi non vedono i prodigi del Signore
Il secondo libro della Scrittura, l’Esodo, racconta la traversata del deserto, primo dell’ingresso del popolo d’Israele nella terra promessa. Il tema del cammino (cap. 15-18) lega ed unifica l’intera narrazione, con la liberazione dall’Egitto e l’uscita dalla schiavitù (capp. 1-15) e l’alleanza sancita sul Sinai (capp. 19-40). Mosè è la guida, scelta da Dio per condurre il suo popolo, mediatore del dono della libertà e della legge, segno della potenza di Dio, che spezza il giogo della schiavitù e vince sulla superba potenza dell’Egitto.

Il brano liturgico odierno ci porta nel momento successivo al canto di vittoria di Mosè e del popolo (cf. 15,1-18), quando gli eserciti dell’Egitto trovarono la morte tra le acque del mar Rosso. Iniziata la traversata nel deserto, Israele già dimentica i segni potenti del Signore e le grida di lamento scandiscono i passi del nuovo cammino. Prima gridano per l’acqua trovata a Mara (cf. 15,23-25), poi, nel deserto di Sin (cf. 18,1-36) rimpiangono le pentole di carne e il pane mangiato a sazietà in Egitto. Dio che conosce bene quanto il popolo faccia fatica ad uscire dalla schiavitù – bastò un notte perché Israele uscisse dall’Egitto, ma ci vollero ben quarant’anni perché l’Egitto uscisse dal cuore di Israele – benevolo e provvidente asseconda le richieste dei suoi, segno questo della pedagogia che dimostra nell’educare con gradualità gli Ebrei a vivere nella libertà, procedendo verso la terra nuova. In realtà nel ritmo del cammino del popolo riconosciamo le nostre stesse difficoltà. Il nostro brano ci presenta una nuova difficoltà per il popolo che, levate le tende dal deserto di Sin, secondo il comando del Signore, riprende il camino. Fermatosi a Refidim, di nuovo soffre la mancanza di acqua e si rivolge prima – “Dateci acqua da bere” (17,2) – e poi, non tenendo conto delle parole di Mosè – “Perché protestate con me? Perché mettete alla prova il Signore?” (17,2) – incominciano di nuovo, leggiamo, infatti: il popolo mormorò contro Mosè (17,3). Israele passa dalla protesta (v. 2) alla mormorazione (v. 3), perché non ascolta la parola di Mosè. Egli tenta di far ragionare il popolo, perché non metta alla prova il Signore. In tal modo, c’è un crescendo nel male, che potrebbe essere arginato, se facesse breccia nel cuore l’accorata ammonizione del mediatore, inviato dal Signore. Mosè, che vorrebbe far desistere il popolo da un nuovo atto di ribellione, viene visto come un nemico e proprio contro di lui si leva la voce del lamento, la mormorazione lo coglie in pieno, nel suo desiderio di mettere pace e spingere Israele alla confidenza e alla speranza incondizionata in Dio.

La traversata del deserto è figura della nostra vita. Camminiamo verso la terra della promessa, ma il Signore ci chiede di collaborare per costruire il nostro futuro, di accogliere il suo dono, mettendo il cuore nella costruzione che ha in mente di portare avanti. Con il tempo, desidera che ci responsabilizziamo, che gradualmente diveniamo capaci di camminare, fidandoci di Lui, passando dalla pretesa alla confidenza. Dio ci chiede di crescere, di non fare i capricci come i bambini, di credere che Egli ci sta vicino, che apre la strada nel deserto e rivela la sua bontà. Il popolo ha la memoria corta, non ricorda le meraviglie che il Signore ha compiuto per loro. sono gente libera, che si prepara a diventare un popolo. Avranno il dono della Legge, segno dell’alleanza che il Signore stipulerà con loro. sono usciti dall’Egitto, vedendo che Dio ha combattuto a loro favore e, senza che alzassero la mano, è stato il braccio del Signore che ha formato una barriera con le acque del mar Rosso, per farli passare all’asciutto. L’esercito è stato risucchiato dalle onde e se questo fosse stato poca cosa, ha già concesso acqua, pane e carne, non rispondendo aspramente agli insulti alzati, con alte grida contro di Lui. Dio, per il suo popolo, è provvidenza, per i suoi eletti è bontà infinita. Paziente e lento all’ira, non si stanca delle voci contrarie che il popolo gli fa giungere e sempre asseconderà le richieste dei suoi figli che a faticano dimenticano la terra della schiavitù.

Anche per noi è difficile diventare grandi ed imparare ad essere adulti. Sulle nostre labbra la lamentela e la mormorazione abbonda, quando gli occhi sono incapaci di contemplare ciò che Dio ha compiuto per noi e gli orecchi si chiudono alla voce di chi ci spinge alla confidenza e alla fiducia nei riguardi di Dio, che non abbandona i suoi figli. Se il Signore non previene la difficoltà è perché attende che il popolo si rivolga a Lui e lo invochi, con confidenza ed amore, che lo riconosca Redentore e Signore, Liberatore potente contro il male e provvido Dispensatore dei suoi benefici. Dio non vuol essere temuto, ma amato, invocato nella prova, non perché abbia bisogno del nostro grido di supplica, ma per dare a noi occasioni di crescere nella fiducia incondizionata in Lui. Le difficoltà sono occasioni di crescita, per risolvere le situazioni, mettendosi nelle mani di Dio, non lamentandosi contro Dio, mormorando della sua bontà, misconoscendo l’amore liberante che ha dimostrato verso di noi. Siamo ingrati verso Dio e verso coloro che, come Mosè, ci sono messi accanto come custodi del nostro cammino. Nella prova abbiamo bisogno di fidarci di Dio, di metterci nella sue mani, di attendere che intervenga con potenza. Ricordare i benefici ricevuti significa frenare la lingua dalla mormorazione e astenersi dal tentare i fratelli dalla missione, difficilmente possibile di farci ragionare.

Perdonaci, Signore, quando non riusciamo a vedere le meraviglie che compi per noi e mormorando contro te e contro i fratelli non viviamo la prova come un occasione di crescita e di maturazione. Perdonaci, Signore, quando ci facciamo forza l’uno con l’altro e cediamo di trovare un capro espiatorio, come Mosè, su cui far ricadere la colpa delle irresponsabilità e dei capricci, frutto delle nostre immaturità. Perdonaci, se non abbiamo occhi per guardare in avanti e siamo sempre rivolti al passato, considerando la schiavitù come un bene e la libertà come un male. continua ad usarci la tua misericordia, perché in te speriamo.

Consultare sempre il Signore
Mosè, davanti al popolo che mormora e grida verso di lui, dopo aver una volta cercato di arginare il diffondersi del morbo della lamentazione (17,2), la seconda volta non risponde nulla all’incalzare delle provocazioni e si rifugia presso il Signore. Non prova a difendere se stesso e Dio, a ricordare ad Israele i prodigi compiuti dal Signore negli ultimi tempi. Sa bene che è inutile farlo. Il grande condottiero dimostra prudenza e saggezza. Comprende, nella situazione che vive, quale sia la scelta più giusta da compiere e opera secondo quanto riesce a discernere. Non si comporta di istinto, come si potrebbe pensare, ma si rivolge a Dio, chiamandolo direttamente in causa. “Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!». ” (17,4). È veramente difficile per noi non rispondere alle provocazioni e rimanere in silenzio davanti alla accuse, ingiustamente perpetuate contro di noi. Il nostro orgoglio ci spinge ad alzare la voce, a presentare le nostre ragione, a giustificare le scelte, a ricordare questo o quell’altro fatto. Mosè, invece, non fa nulla, perché il suo compito è quello di mediare Dio per il popolo e portare il popolo a Dio. Non c’è confusione di ruoli, rimane al suo posto e resta in silenzio, dopo aver provato una volta di far ragionare i figli di Israele. Ci sono momenti in cui tentare non porta a nulla e l’unica cosa da fare è rivolgersi al Signore, permettergli che sia Lui a difenderci, chiedere che intervenga a nostra protezione e difesa, che riveli la sua bontà e risolva, come solo Lui può, le difficoltà che si presentano. È questa la grande maturità di fede di Mosè. Non si lascia portare nel baratro della lamentazione, non accusa il popolo di infedeltà e neppure perde tempo nell’alzare la voce e nel ricordare i misfatti già fatti contro Dio e contro di lui, nel breve arco di tempo che è trascorso dall’uscita dall’Egitto. Mosè vive la non appropriazione di quanto sta accedendo e davanti al Signore, pur sfogando la sua angoscia ed un senso di fallimento, facilmente coglibile nelle sue parole, si rimette a Lui. Se il popolo non ha ascoltato la sua voce, non per questo egli non ascolta la voce di Dio; se Israele non vuol rimettersi al Signore, Mosè, al contrario, desidera seguire quanto gli comanderà; mentre gli Ebrei dimostrano si danno alla lamentela e sono una voce sola nel mormorare, il profeta si rivolge al Signore, nella solitudine del dialogo che dona spessore alla sua vita.

È nella preghiera che dobbiamo domandare che il Signore ci difenda. Consegnando alle sue mani le nostre cause, i dubbi che ci assillano, i problemi che pesano sul cuore, dimostriamo la nostra piena disponibilità a metterci al suo servizio e a fare come Egli ci indicherà. È Dio che deve indicarci la via da seguire, a Lui dobbiamo rivolgere la nostra voce, come Mosè, perché ci dica quello che desidera da noi. Il popolo è ribelle, ma sulla labbra di Mosè potrebbe fiorire la parola del salmista “tra le loro malvagità, continui la mia preghiera”. Il suo Che cosa farò io per questo popolo? dimostra che egli non farà nessun passo senza Dio. Abbiamo tanto veramente da imparare da Mosè: rifiutare le provocazioni, fidarsi di Dio, attendere la sua parola, aspettate i suoi tempi, non intervenire, dando sfogo alla propria impulsività, non aver paura del numero del popolo che ci pone contro di noi, ricercare nel silenzio la voce di Dio. Uomo della solitudine, Mosè è anche il confidente di Dio ed è questa la sua forza, la sorgente del suo coraggio, dell’affrontare le folle, dell’alzare la voce, del mettersi contro tutto e contro tutti, perché il fuoco del roveto ardente si è profondamente impresso nel suo cuore. Siamo chiamati ad essere uomini e donne dell’intimità con Cristo, che vivono di Lui, che trascorrono del tempo davanti al suo mistero, in silenzioso ascolto della sua voce ed in adorante contemplazione della sua presenza. Abbiamo bisogno di essere familiari di Dio, amici suoi, come Mosè che parlava con Lui faccia a faccia, che entrava nella tenda del convegno per consumarlo, per usciva dalla sua presenza con il volto raggiante di luce. Solo la capacità di fissare il cuore e la mente nel cuore del Signore, di inabissarsi nella sua luce può renderci impermeabili alle cose che passano, alle lamentele e alle minacce, alle mormorazioni e alle mortificazioni che la vita ci riserva. Dove c’è la potenza di Dio, dove il suo volto è ricercato la sua voce ascoltata, la sua presenza adorata, le potenza del male non possono nulla. E se questo è capitato a lui, cosa potremmo fare noi che abbiamo Gesù Cristo, che ci nutriamo del suo Corpo e beviamo del suo Sangue, che abbiamo in noi la caparra del suo Spirito nei nostri cuori, che grida “Abba! Padre”? Paolo dice che il ministero della nuova alleanza supera quello di Mosè (cf. 2Cor 3,7-11), lo stesso non possiamo dire noi della forza che anima la nostra vita, dello spirito Santo che il Risorto ha effuso sulla sua Chiesa, straordinaria potenza capace di sostenerci nella prova, facendoci superare ogni tipo di difficoltà? Abbiamo una grazia maggiore rispetto all’antico mediatore del popolo eletto, perché Cristo ci ha fatto dono del suo Spirito. Lo ricorda l’apostolo Paolo a Timoteo “Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. […] con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo” (2Tm 2,7.8b). potremo fare cose più grandi degli antichi patriarchi e profeti, se ci lasceremo portare dallo Spirito di Cristo e confideremo interamente in Lui.

Donaci, Signore, la tua forza per non rispondere alle provocazioni e alle offese, l’arrendevole coraggio che vince l’orgoglio, nel porgere l’altra guancia. Rendi forti nella tribolazioni, silenziosi nell’accogliere le accuse, perseveranti nella preghiera. La solitudine non ci incuta paura, l’andare controcorrente non metta nel cuore tristezza. La lampada della preghiera ci sostenga nella notte del male e la luce della fede ci doni la forza di continuare ad abbandonarci a te, obbedendo alla tua voce, seguendo i tuoi consigli, percorrendo la via che tu hai tracciato per noi.

Dalla roccia l’acqua viva
La risposta del Signore non si fa attendere: “Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’!” (17,5). Significativo è notare che Dio non rimprovera il popolo né duramente lo condanna. Paziente e misericordioso, ancora una volta, asseconda la richiesta che gli viene presentata attraverso il mediatore che ha scelto e offre quelle indicazioni, dalla cui obbedienza dipende la possibilità di offrire acqua al popolo, oppresso dall’arsura. Il bastone, tante volte utilizzato da Mosè, diverrà ancora una volta strumento di salvezza, perché dalla roccia percorsa da quella verga sgorgherà acqua a ruscelli. Difatti, il Signore aggiunge: “Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà” (17,6). Mosè non è solo, perché Dio accompagna i suoi gesti, precede il suo andare, opera insieme con lui i prodigi che solo il suo braccio testo può compiere per il bene del suo popolo. Alle parole di Dio segue l’obbedienza di Mosè, che, seguito dagli anziani compie quanto il Signora ha comandato.

Se volessimo rimanere al solo fatto narrato, resteremmo nel passato, pur cercando degli insegnamenti importanti per la nostra vita. Ma non basta, perché la Scrittura antica è figura del mistero di Cristo e preannuncio di quanto il Signore compirà con la sua vita, morte e resurrezione, per ciascuno di noi. Nella sete del popolo d’Israele c’è la nostra sete, il desiderio di ogni figlio della chiesa, che anela alle fonti della salvezza; Mosè è figura di Cristo, che è anche la roccia, da cui sgorga l’acqua dello Spirito che riempie di gioia e di vita il cuore dei credenti. Nella ribellione del popolo c’è l’incostanza della nostra fede, gli alti e bassi del nostro altalenante cammino di fede, della nostra poca incostanza, nel crescere, assecondando gli eventi della vita, che richiedono responsabile impegno e consapevole maturità per gettarsi alle spalle capricci e lamentele, per incominciare ad essere uomini e donne adulti nella vita. Camminare con Dio è qualcosa di concreto, proprio come credere nella sua Parola, obbedire alla sua voce, seguire con fede i suoi, perché nella sua volontà c’è la nostra pace.

Dona, Signore, alla tua Chiesa e a quanti leggono con fede la tua parola di vita, di attingervi la grazia della trasformazione e la potenza della conversione. Come Mosè percosse con il suo bastone la roccia e ne sgorgò acqua per la sete del tuo popolo, fa che anche oggi tutte le genti trovino in Cristo l’acqua che ci disseta e dona la vita. Allontana da noi la tentazioni di smorzare la nostra sete in cisterne screpolate e guidaci tu nella via del vero bene, che hai pensato per ciascuno di noi. Solo tu sei la roccia della nostra salvezza, la sorgente della nostra gioia, la fonte della nostra letizia.