Commento al Vangelo di fra Vincenzo Ippolito ofm
XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) – 14 agosto 2022
Non sono venuto a portare la pace sulla terra, ma la divisione.
Dal Vangelo secondo Luca (12,49-53)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».
Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?».
Il tema dominate della liturgia odierna, Ventesima Domenica del Tempo Ordinario, è il desiderio che anima il cuore di Gesù, tutto proteso a realizzare il comandamento del Padre. La Prima Lettura, tratta dal libro del profeta Geremia (cf. 38,4-6.8-10), ci presenta la non semplice situazione che il profeta affronta, a causa di chi lo accusa ingiustamente. Egli accoglie quanto il Signore permette, affidandosi a Lui, che non lascia soli chi si affida alla sua mano. La liberazione che Geremia sperimenterà sarà il segno che a Dio sta a cuore la vita del giusto. Nella Seconda Lettura, l’autore dell’Epistola agli Ebrei (cf. 12,1-4) presenta la corsa della vita cristiana, protesa verso Gesù, senza che nulla appesantisca il cammino. Se ci fermiamo poi al brano di san Luca, ci accorgiamo che non vi è cesura tra il Vangelo della scorsa domenica (cf. Lc 12,32-48) e quello di oggi (cf. Lc 12,49-53) – si vede chiaramente come i versetti siano in sequenza – e questo rende più semplice comprendere la dinamica narrativa e, di conseguenza, apprendere l’insegnamento che l’Evangelista desidera trasmettere alla sua comunità. Il cambiamento di prospettiva che il brano evangelico presenta rispetto a quello letto e meditato la scorsa domenica, è rilevante: nella pericope precedente Gesù ammaestrava i suoi sul pericolo della ricchezza e sulla necessità di vigilare (cf. Lc 12,13-48); ora, invece, il Gesù di cui Luca ci parla mostra la consapevolezza che ha della sua missione e rivela come il discepolo sia chiamato a vivere la sua stessa dinamica interiore. È come se Luca, dinanzi alla sete di ricchezza che soffoca nel discepolo l’ansia del Regno e la sincera ricerca del vivere la povertà, ponesse Cristo quale modello unico ed imprescindibile della vita cristiana. È Lui, infatti, che dobbiamo avere dinanzi agli occhi, secondo il monito che oggi risuona nella seconda Lettura “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che da origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,2). A noi è chiesto come diretta conseguenza di pensare “attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori” (Eb 12,3), perché la stanchezza non rallenti il nostro cammino di sequela. In tal modo l’Evangelista mostra con chiarezza il senso della nostra sosta settimanale, partecipando alla celebrazione eucaristica: domenica dopo domenica siamo invitare a confrontarci con Cristo, a modellare su di Lui la nostra vita, traendo energie sempre nuove dal nostro fissare in Lui il nostro sguardo per apprendere l’arte di piacere in tutto al Padre. “Colloca i tuoi occhi davanti allo specchio dell’eternità – scrive santa Chiara di Assisi alla sua discepola la beata Agnese di Praga – colloca la tua anima nello splendore della gloria, colloca il tuo cuore in Colui che è figura della divina sostanza e trasformati completamente, per mezzo della contemplazione,nella immagine della divinità di Lui” (3LAg 12-13: FF 2888). È questo l’esercizio che desideriamo compiere oggi perché le nostre famiglie, fondate sulla roccia della Parola del Signore, ricevano da Lui nuova linfa di vita, la potenza della trasformazione attraverso lo sguardo tutto a Lui rivolto.
Lasciare che il cuore bruci d’amore
Gli Evangelisti descrivono in molte forme la missione di Gesù. Si tratta di modalità differenti che servono a chiarire nella mente dei discepoli come il Signore sia nostro compagno di viaggio ed in che modo operi la salvezza nella vita dell’uomo. Egli è il Maestro ed il Pastore, la Guida ed il Medico, il Salvatore atteso ed il Messia promesso, il Cristo, il Figlio di Dio venuto nel mondo a sanare le piaghe dei cuori spezzati. Si tratta di titoli che stanno ad indicare l’identità di Gesù e la sua funziona salvifica – si è soliti parlare di titoli cristologici – o di figure per la maggior parte desunti dall’Antico Testamento, tese ad indicare chi è il Figlio di Maria e le conseguenza della sua presenza nella vita di quanti accolgono la sua parola. Luca ci offre oggi una immagine assai evocativa che riveste, nel nostro immaginario, molti significati. Gesù si dice venuto a portare il fuoco – “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”, v. 49a – manifestando, con l’espressione “e quanto vorrei che fosse già acceco” (v. 49b), che il desiderio di compire al più presto questa missione lo brucia interiormente, lo motiva emotivamente, lo spinge in maniera incondizionata a compiere quanto il Padre desidera da Lui. Il cuore di Cristo è la fornace ardente della divina carità, è una fiamma incandescente dell’amore del Padre, il roveto infuocato che attrae l’uomo, facendo sorgere nel suo animo il desiderio della contemplazione, la sete della visione, la nostalgia della presenza divina trasformante. Cristo non riesce a contenere in sé la potenza dello Spirito che nel battesimo lo ha unto, profumandolo di Dio, investendolo della gioia di compiere la volontà del Padre, di cui Egli è il Figlio teneramente amato. È come se Gesù volesse anticipare i tempo delle nozze, quando sul talamo della croce stringerà a sé la sua sposa, la Chiesa, nell’amplesso dell’amore unitivo e fecondo. Il Signore sente il cuore suo trafitto dal desiderio di comunicare l’amore, di vivere la pienezza del dono, di concedere la sua vita, portato totalmente dalla volontà del Padre che in Lui si riverbera, si manifesta e parla con voce di tuono.
La consapevolezza che il Maestro dimostra della sua missione è meravigliosa, come anche la viva immagine che ben manifesta l’ansia del suo cuore, il fuoco che brucia e consuma, che arde ed accende. Lo stesso fuoco lo porterà, nella sera del tradimento, a dire ai suoi, riuniti nel cenacolo “Ho tanto desiderato mangiare questa pasqua con voi prima della mia passione“ (Lc 22,15). Non solo però Egli è arso del fuoco del desiderio di compiere la volontà del Padre, ma vuole con tutte le fibre del suo cuore “gettare fuoco”, ovvero partecipare agli uomini la sua ansia del Regno, il suo amore per la causa del Padre, la volontà indefessa di perseguire la salvezza degli uomini. È venuto a portare il fuoco e a gettarlo sulla terra, abilitando la vita dell’uomo a rispondere all’amore con l’amore. Ma c’è un’altra particolarità che la figura del fuoco dimostra e che, nella predicazione dei profeti dell’Antico Testamento risulta significativa ed è la purificazione. Il dono di Dio purifica e rende vero l’amore dell’uomo. Nel crogiolo della prova, l’oro dell’amore è purificato con il fuoco. Questo compie la potenza di Cristo nell’uomo, lo purifica da ciò che non è amore, lo unifica in se stesso, lo abilità all’incendio, lo conduce al dono.
È necessario nelle nostre famiglie, non solo chiedere il dono del fuoco dell’amore, ma domandare con insistenza che il nostro amore venga purificato. Non sempre il nostro affetto è autentico. Il fatto che sia vero e sincero, ovvero che sia cordialmente offerto, non vuol dire che sia privo di egoismo e di una ricerca nascosta di interesse e di tornaconto. La verità e la sincerità, infatti, dicono il desiderio del cuore amante, ma è altrettanto importante vedere come l’amore venga vissuto. Amare in sincerità non significa amare come si dovrebbe per il vero bene proprio ed altrui. Il fuoco di Dio in noi deve estinguere l’egoismo, il peccato e le cadute dell’altro che non vanno mai ricordate, ma gettate nella fiamma che brucia e consuma l’errore. Non possiamo legare al dito torti ricevuti ed attendere il tempo appropriato per far pesare la male, volontario o meno, che abbiamo ricevuto. L’amore che ricambia il mal torto non è puro amore, ma egoismo. Ecco perché dobbiamo gettare nel cuore di Cristo i nostri cuori perché vengano temprati e ricevano forza nel resistere alle difficoltà e manifestare così la potenza della misericordia che tutto vince in noi e tra noi.
Non c’è amore senza verità
Se la seconda immagine che Gesù utilizza è il battesimo, a rendere ancor più efficace la sua ansia di immergere l’uomo nel mistero della misericordia del Padre, la domanda che segue è invece direttamente rivolta ai discepoli perché diventino coscienti di ciò che la missione del Salvatore comporti. “Credete che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisore” (v. 51). Sono parole forte quelle che pronuncia il Maestro, dove i termini pace/guerra prendono il posto dei sostantivi fuoco/battesimo in precedenza utilizzati. Comprendere ciò che veramente Gesù intende dire risulta importante, soprattutto lì dove il testo non è chiaro e facilmente può essere travisato. È semplice incorrere in letture arbitrarie ed infondate del Vangelo, ecco perché bisogna procedere per gradi, proprio come nel caso del nostro brano. Già nei primi capitoli del suo Vangelo, nella narrazione della presentazione di Gesù al tempio (cf. Lc 2,22-38), Luca aveva descritto il santo vecchio Simeone che, preso il Bambino tra le braccia, lo indicava a sua Madre quale “segno di contraddizione” (Lc 2,34), posto “per la caduta e la resurrezione di molti in Israele” (Lc 2,34).
Questi due brani – quello della liturgia odierna ed il secondo, tratto dai Vangeli dell’infanzia – si illuminano a vicenda. L’Evangelista, infatti, non intende dire che Cristo è venuto nel mondo ad istaurare con la violenza il suo regno – sarebbe assurda una cosa del genere, oltre che infondata! – quando, invece, ad affermare che la pace da Lui donata ai suoi crea divisione tra coloro che accolgono la sua parola e quanti la rifiutano. Comprendiamo allora quanto le affermazioni di Simeone divengano significativa chiave di lettura del nostro brano. Gesù dona la pace, effonde il suo Spirito di misericordia, accende nei cuori il desiderio di concordia, ma il suo Vangelo, la sua parola, la sua stessa presenza è segno di contraddizione per quanti non si lasciano raggiungere dal suo messaggio e si chiudono alla sua azione. Ecco perché Luca parlava di caduta e di resurrezione (cf. Lc 2,34) e san Paolo scriverà ai Corinzi che “la parola della croce è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18). È vero, il linguaggio utilizzato da Luca è molto forte, ma questo serve a mettere gli ascoltatori davanti alla radicalità della scelta del Vangelo e alle conseguenze che scandiranno la vita del chiamato. Chi segue Gesù deve sapere che “chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me, chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me, chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me” (Mt 10,37; Lc 14,26-27). Nulla deve essere anteposto all’amore di Cristo, ma al tempo stesso la relazione preferenziale con Lui determina anche un cambiamento nell’ambito dei rapporti con gli altri, non in termini di esclusione e di rifiuto, ma di chiarezza e di verità. L’esigenza di testimoniare l’appartenenza a Cristo può condurre il discepolo a vivere situazioni di guerra e di rifiuto non cercati, ma attuati da altri, ma questo non deve minimamente sia mirare la sua scelta né condurlo a non vivere con chiarezza e radicalità la sua fede. Il discepolo deve vivere la sua pace nella guerra, convinto che la relazione con Cristo è sorgente di gioia, pur nelle contrarietà umane, motivo di vanto, pur sotto il peso della croce perché solo Gesù è vita vera e piena per l’uomo che ricerca sinceramente la via della pace.
La divisione che Cristo preannuncia ai suoi rappresenta quindi una preparazione per i discepoli, perché siano pronti a vivere la difficoltà e la prova. In tal modo il chiamato è messo a contato con l’esperienza che il Maestro compie. Egli parla di pace e questo determina la guerra ed il rifiuto, offre il perdono e l’unità e riceve divisione e derisione, guaisce e risana, semina la vita ed intorno a Lui si crea una opposizione che conduce i suoi rivali a pensare alla sua morte. In tal modo Gesù sta indicando che la via che sta percorrendo non solo non è estranea al discepolo, ma rappresenta per lui l’unica strada per dire di appartenere al gregge del vero ed unico Pastore. La contrarietà e la divisione, l’essere perseguitato dagli uomini è il segno eloquente che sta camminando sulla stessa strada del Maestro. Nel discorso programmatico delle beatitudini, Gesù lo aveva indicato: “Beati voi quando vi odieranno e vi rifiuteranno, vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché la vostra ricompensa è di certo grande nei cieli. In tal modo, infatti, si comportavano i loro padri con i profeti” (Lc 6,22-23). La vita di Gesù rappresenta il modello esemplare del discepolo che non deve minimamente scoraggiarsi, ma orientare a Cristo la sua vita, accogliendo le contrarietà per amore del suo Maestro che “ci consola in ogni nostra tribolazione” (2Cor 1,4).
La comunità cristiana che vive di Cristo e si abbandona a Lui, sperimenta all’interno la pace, ma la scelta del Vangelo determina spesso all’esterno uno stato di guerra permanente, di incomprensione ed opposizioni che possono anche minare la sua stabilità. È necessario, in una società non più cristiana come la nostra, avere piena consapevolezza di camminare controcorrente, quando si professa la propria apparteneva a Cristo e alla sua Chiesa, quando i valori del Vangelo conducono a scelte che ripercorrono la strada tracciata dal Maestro, quando la difesa per la vita nascente, per la famiglia fondata sull’unione dell’uomo e della donna, secondo il progetto di Dio, portano a vivere le vette dell’eroismo e del dono vero della propria esistenza. Gli sposi cristiani devono sapere a cosa vanno incontro accogliendo il dono del matrimonio come sacramento e cosa richieda loro l’esigenza della vocazione all’amore uniti e procreativi che conduce a mettere i piedi sulle orme del Maestro. Lo stesso discorso vale per le comunità parrocchiali e religiose che sono i luoghi dove ciò che gli uomini considerano stoltezza è accolto, come è accolta ed amata la croce di Cristo, quale salvezza e redenzione potente ed efficace. Talvolta, però, può anche capitare che la scelta di Cristo fatta da uno dei coniugi conduca a vivere tensioni nella coppia ed in famiglia, la fede è osteggiata dall’altro, incompresa e deriva l’amicizia con Cristo, il tempo della preghiera considerato inutile svago che non ha nessun frutto. Proprio in quei momenti siamo chiamati a vivere lo scandalo della fede e l’offerta silenziosa della nostra vita, cercando di combattere il male con il bene (cf. Rm 12,21), sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in noi (1Pt 3,15). Sante come Monica, madre di sant’Agostino, Rita da Cascia, moglie, madre, vedova e religiosa, testimoniano quanto la preghiera illumini la notte della tribolazione e divenga forza di trasformazione e di conversione.
L’arte del discernimento
Essere discepoli di Cristo e formare con Lui una cosa sola vuol dire avere uno sguardo nuovo sulla vita e sul mondo, un occhio profetico sulla realtà che è intorno. Giudicare rettamente le cose di questa terra sembra infatti la diretta conseguenza della propria apparenza a Gesù e al suo Vangelo. Leggere i segni della presenza di Dio, pur nella difficoltà e nella tribolazione, caratterizza l’esistenza cristiana ed anima l’impegno del discepolo del Signore nel mondo. Non siamo soli, mai, nel combattimento e nella guerra dei pensieri, quando sembra che la barca della nostra vita e della nostra famiglia venga sopraffatta dai flutti del mare, non siamo abbondanti a noi stessi, come coloro che non hanno riposto in Cristo la loro speranza sono spesso portati a credere. Le nostre famiglie e comunità devono vivere l’alternativa esistenziale che nasce da Cristo, la certezza che la guerra degli uomini contro i discepoli di Gesù è vera pace di Dio per chi si lascia portare dalla potenza del suo amore. Cristo è una necessaria possibilità, un’alternativa di cui non si può fare assolutamente a meno. Ecco perché in questo tempo di ferie è necessario ritagliarsi del tempo per rinnovare la nostra scelta di Lui e fondare la nostra vita personale e familiari sulla sua parola, modellando su di essa la nostra quotidianità. È Cristo, infatti, l’unica sorgente di quella pace che nulla e nessuno potrà mai strappare dalle nostre mani.