Commento al Vangelo di fra Vincenzo Ippolito ofm
XVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) – 31 luglio 2022
Quello che hai preparato, di chi sarà?
Dal Vangelo secondo Luca (12,13-21)
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?».
E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».
Quale il mio rapporto con i beni di questa terra? Ricerco la ricchezza ad ogni costo? Cosa conta veramente nella mia vita? Sono queste solo alcune delle domande che la liturgia della Parola, in questa domenica, ci pone. Se da una parte la Scrittura ci porta ad investigare il nostro cuore, per guardarlo in profondità, dall’altro il Signore ci presenta i valori che possono e devono orientare la vita e le scelte. Nella Prima Lettura, tratta dal libro del Qoèlet (cfr. 1,2; 2,21-23), ascoltiamo la riflessione di questo saggio d’Israele, che ha sperimentato come le attività della vita siano un soffio – il termine vanità ha proprio questo significato – e procurino solo affanno e dolore. Non si tratta di un amaro pessimismo, frutto di una visione negativa della realtà, quanto della constatazione che tutto è relativo, quando non è guidato dalla saggia prudenza, che ci fa guardare il mondo con gli occhi di Dio, partecipando al grande disegno della creazione. Per questo la voce del salmista ci conduce a chiedere la sapienza del cuore (cf. Sal 89), per contare i giorni della nostra vita, chiedendo che l’opera delle nostre mani da Lui riceva stabilità e forza. Nella Seconda Lettura, sempre tratta, come le ultime domeniche, dall’Epistola i Colossesi (cf. 3,1-5. 9-11), l’Apostolo invita i credenti a vivere da risorti, sempre uniti al Signore, non lascando che le passioni abbiano il sopravvento sulla vita divina, avuta in dono dal Signore risorto. Il Vangelo (cf. Lc 12,13-21) ci presenta Gesù, interpellato da un tale, in disputa con il fratello. Questo diventa l’occasione per parlare su come utilizzare i beni di questo mondo, servendosi di una parabola, come spesso accade nell’insegnamento evangelico. La pagina evangelica odierna pone l’attenzione del lettore sul pericolo delle ricchezze che interesserà più brani consecutivi del medesimo capitolo dodicesimo. La finalità che l’Evangelista vuol raggiungere è permettere al discepolo di comprendersi e vivere come l’uomo abbandonato alla Provvidenza (cf. Lc 12,22-32), che vende ciò che possiede per darlo in elemosina (cf. 12,33-34) ed attende vigilante il ritorno del Signore (cf. Lc 12,35-48).
Dove il tuo tesoro, lì anche il tuo cuore
Dopo una seria di insegnamento raccolti dall’Evangelista e diretti alla folla radunata in gran numero (cf. Lc 12,1-11), la nuova scena che si apre prende le mosse da un uomo che, tra la folla, ha il coraggio di presentarsi a Gesù e di esporre una situazione che lo angustia. Chiama Gesù“Maestro” (v. 13) riconoscendo la sua indiscussa autorità e poi, con il tono perentorio simile a quello utilizzato da Marta (cf. Lc 10,40), vuole che Gesù parli con suo fratello per risolvere un problema riguardante l’eredità. Il tale sembra sia stato depauperato di un suo diritto e non ci siano ragioni che spingano suo fratello a renderlo partecipe di quei beni di cui si è appropriato. Il testo permette, a ben vedere, vari livelli di lettura. Il primo riguarda la difficoltà nella comunicazione, l’irruenza del parlare e la violenza nell’imporre al Signore il da farsi. Possiamo quindi dire che il dialogo incominci proprio male perché quel tale non solo non ha compreso quanto il Maestro sta insegnando (cf. Lc 12,1-12), ma utilizza una modalità totalmente errata di approccio. Non ci si rivolge, infatti, ad una persona con un imperativo – “Maestro, dì a mio fratello” v. 13 – né gli si chiede di parteggiare per sé a discapito degli altri. Questo significa strumentalizzare l’altro, piegarlo ai propri interessi, imporgli uno steccato all’interno del quale muoversi. Non basta che ciò che noi chiediamo sia giusto, è importante che venga domandato anche con modi egualmente giusti. Dobbiamo stare attenti a come usiamo le parole, a come ci rivolgiamo agli altri, a cosa chiediamo loro di fare e di essere nella nostra vita. L’imperativo è il tempo verbale della pretesa e del comando e non solo è fuori luogo utilizzarlo con Dio – Egli potrebbe usarlo con noi in quanto Creatore, ma pospone sempre un “Se vuoi” – e nei rapporti tra noi è bene sempre sostituirlo con un condizionale – potesti oppure vorresti – che non solo rispetta maggiormente la libertà dell’altro, ma non mortifica la sua capacità di riflettere, pensare e di comportarsi di conseguenza. Se poi, vogliamo proprio usare un imperativo, lo si faccia con moderazione, ma ricorrendo ad un semplice per favore o anche a di grazia, perché la richiesta non suoni mai come una imposizione. Spesso nella comunicazione siamo bloccati dall’impeto delle parole dell’altro, dalla violenza dei modi, da quella mancata delicatezza che determina una chiusura non cercata, né voluta, ma istintiva, una sorta di autodifesa davanti a colui che entra nella tua mente e nel tuo cuore e sbaraglia la tua sensibilità e il tuo modo di relazionarti a lui. Comprendiamo quindi la reazione forte di Gesù che pone dei paletti bene chiari a quel tale e non si lascia minimamente trascinare in un terreno nel quale non solo non è bene entrare – quello familiare – ma nel quale Egli non vuole entrare. Quante volte siamo trascinati dall’altrui violenza in situazioni che non scegliamo e diveniamo giudici di terze persone le cui intensioni non conosciamo. In maniera passiva diamo ragione e torto, sottoscrivendo, per quieto vivere, ciò che ci viene strappato dalla bocca, mentre la mente ed il cuore non sanno con coraggio affrancarsi dall’altrui pretesa. La ribellione non è un peccato, quando è finalizzata a far comprendere all’altro che nella relazione ci sono delle regole da rispettare quali la delicatezza, le buone maniere, la calma, il rispetto della sensibilità altrui. In nome della sincerità non si può sguinzagliare l’esercito sconclusionato delle proprie parole alla conquista della cittadella della mente dell’altro. Chi mi vive accanto non è il servo dei miei desideri, né tantomeno il mercenario che asseconda le mie battaglie. Dobbiamo imparare da Gesù il giusto modo per rispondere alle pretese e ridimensionare così le richieste assurde che ci vengono fatte.
Dobbiamo poi notare un secondo livello di lettura del brano è più introspettiva e riguarda l’appropriazione come radice di ogni disarmonia familiare. L’uomo che si presenta a Gesù mostra che suo fratello ha preso per sé tutta l’eredità, azione non certo legittima e giustificata. Sembra di ascoltare la narrazione di tanti fatti che accadono nelle nostre famiglie, dove i rapporti sono tesi a causa di interessi economici. La ricchezza ed i beni di questo mondo in genere impediscono la custodia dei nostri rapporti. Quando l’interesse si intrufola nelle relazioni prima o poi si arriva alla rottura dei legami e si assiste a situazioni spiacevoli di conflitto. La ricerca del tornaconto personale offusca la mente, indurisce il cuore, chiude le mani alla condivisione e ripiega l’uomo su se stesso. Il tarlo che corrode i rapporti familiari e di amicizia, come anche le relazioni lavorative è l’appropriazione, ovvero la cupidigia quale desiderio di possesso. Non solo si rivendica il proprio, ma ci si sente autorizzati anche a prendere ciò che è degli altri. Tale discorso non riguarda – in tal caso sarebbe, infatti, riduttivo – solo le sostanze materiale, ma anche le ricchezze interiori, le capacità che il Signore ci ha dato, l’intelligenza, la sensibilità, le generosità, il servizio, la sincera ricerca del bene. Quante volte, come il tale del Vangelo, sotterro il mio talento per paura e non faccio fruttificare i doni del Padrone? Non solo è un errore grave prendere ciò che non ci appartiene, ma è da considerare egualmente un peccato non donare agli altri quello che abbiamo, considerando nostra proprietà quanto è un bene non solo per noi. Senza poi contare che è ugualmente sbagliato volere che la persona che mi è accanto viva e faccia fruttificare i suoi talenti secondo i miei progetti. Nelle nostre famiglie è necessario educarsi alla condivisione e alla solidarietà, perché solo così costruiremo una società a misura di uomo ed offriremo il nostro contributo nell’umanizzare i nostri rapporti che difettano proprio di ciò che rende umano il nostro vivere, l’amore, la compassione, la comprensione, l’accoglienza, l’ascolto. Nelle mura di casa si impara a vincere l’istintiva sete di possesso, propria dei bambini – Questo è mio! è il continuo ritornello che ripetono afferrando ogni cosa – per arrivare alla condivisione con i nostri fratelli di ciò che ci appartiene. I figli devono vedere che i genitori combattono l’egoismo con la forza di Dio e che nella preghiera macerano i desideri che legano il cuore alla terra per essere liberi nell’amore e nel dono.
Andare sempre al cuore dei problemi
La parola che Gesù dona al suo interlocutore (v. 13) è diretta e stringata – “o uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi? (v. 14) – e serve proprio a mostrare come il Signore non solo disapprovi la modalità con cui è stato chiamato in causa, ma anche la strumentalizzazione del suo insegnamento e della sua autorità. Risolverà di certo la disputa, avrà pensato quell’uomo, ma Gesù non è venuto per sanare vertenze economiche presenti in famiglia, né ad essere giudice in questioni propriamente terrene di eredità. Il Signore si ribella dinanzi alle nostre pretese e ai nostri modi di volere che Egli assecondi il nostro egoismo. Dio rompe gli schemi dove cerchiamo di rinchiuderlo. Quando la comunicazione è inficiata dall’interesse, la relazione con Lui è strumentale, le nostre domande troppo terrene, quando le preghiere sono pretese che attribuiscono al Maestro un ruolo che Egli non vuol avere e, se desidera averlo, non come noi lo intendiamo, allora incontriamo il volto di un Dio che ci redarguisce, non solo o non tanto per punire la nostra presunzione, ma per scuotere il nostro orgoglio così da comprendere che non si crea il dialogo se si pretende che l’uomo imponga e Dio obbedisca. Ribellarsi alle pretese degli altri è normale, quando sono campate in aria, ma è altrettanto sacrosanto nella relazione che il dialogo e lo scambio sia tra eguali, senza che uno si erga sull’altro come giudice e censore implacabile delle azioni altrui. Non si costruiscono così i nostri rapporti! Ecco perché, nel vortice di queste disarmoniche dinamiche si rifiuta il gioco che l’altro vuol imporre e si fugge. È così difficile capire che la pretesa è frutto di una marcata immaturità, dell’incapacità di giungere al nocciolo dei problemi, di andare a fondo nelle situazioni? Perché chiedere agli altri – è questa la dinamica che si innesca soprattutto nella relazione educativa – di risolvere i propri problemi e di evitarci quei dolori che ci maturano e ci fanno divenire adulti? Perché ricorrere ad altri per la risoluzione situazioni che nascono da arrivismo, cupidigia e desiderio di possesso? Quell’uomo deve parlare con il proprio fratello da adulto, confrontandosi con le immaturità che l’altro dimostra, non può chiedere che Cristo abbandoni la folla per il particolarismo e l’interesse di una sua richiesta. Dio ha infuso nella sua mente acume ed intelligenza, metta a frutto i doni ricevuti nella relazione con l’altro, diversamente da come ha fatto con il Signore ora.
Rendere l’altro giudice e mediatore si verifica spesso nelle relazioni tra i figli che, in contesa tra loro, chiamano i genitori a sedersi sulla cattedra ad ascoltare i diversi parere e a sentenziare la fine di una vertenza familiare. Spesso capita che dopo il verdetto, chi si sente punito, si lecchi le ferite e chieda comprensione – di solito è la mamma a rincorrere chi scappa deluso perché rilegga, sotto una diversa luce, ciò che è accaduto – mentre chi ha ricevuto ragione è solitamente ripreso perché dimostri maturità e non inveisca per affermare la propria superiorità. Sono queste dinamiche normali mentre i figli crescono, ma possono divenire pericolose quando, pur crescendo, si rimane bambini e non si riesce a vivere da adulti e a risolvere con l’uso della prudenza e della ragione situazioni che si possono presentare. Dobbiamo divenire adulti nella relazione. Siamo noi giudici e mediatori di noi stessi non perché, in maniera arbitraria, dobbiamo affermare le nostre ragioni, ma per la ragionevolezza che siamo chiamati a vivere nel rapporto con gli altri attraverso il dialogo. A volte, le cose semplici divengono le più difficili e sono quelle che rappresentano le pietre di intralcio nel cammino insieme. Questo Gesù desidera evitare, il nostro bloccarci e chiuderci, giustificandoci dinanzi a noi stessi. Non è questa la strada per vivere la fraternità e costruire una società diversa.
Gesù, dopo aver risposto all’uomo (v. 14), prendendo spunto dalla situazione che gli è stata presentata, si rivolge alle folle, cercando di trarre da quanto è accaduto un insegnamento che focalizzi il centro della questione. Scrive l’Evangelista, trasmettendo le parole del Maestro,“Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”(v. 15). Il discepolo che segue Gesù deve mettere ogni impegno nel saper leggere la realtà intorno a lui e nel porre ogni custodia alla sua vita perché la cupidigia – meglio dire l’avarizia! – non corroda il suo cuore. Il problema vero, sembra dire Gesù, non è dividere in modo equo i beni di questa terra, ma nel saper guardare o meglio guardarsi – il testo CEI traduce fate attenzione – e nel custodire –se stessi o anche il proprio cuore, il complemento oggetto sembra sottinteso,mentre il testo CEI traduce tenersi lontani – dalla brama di possesso. Il termine cupidigia sta proprio ad indicare l’appropriazione di beni, mentre il sostantivo avarizia pone l’accento su ciò che si possiede, non si vuol condividere e che si vuol conservare gelosamente. Si tratta dello stesso peccato visto da angolature differenti. Difatti, prima si desidera una cosa – cupidigia – e poi si cerca di conservarne il possesso – avarizia – in modo da non farne parte agli altri. Il Maestro mette così in luce la radice di ogni peccato e delle mancate relazioni tra gli uomini, ovvero la smania di possesso che è la vera zizzania per il cuore e che lo anestetizza ad ogni difficoltà e necessità dei fratelli. La smania del possesso, a ben pensarci, non è solo la morte del nostro cuore e del rapporto anche con i fratelli bisognosi, ma rappresenta un veleno mortale anche nelle relazioni. Solitamente definiamo gelosa una persona che non riesce a vivere nella fiducia dell’altro e desidera di stringere la persona che dice di amare nella morsa del personale ed egoistico possesso. Potremmo parlare della cupidigia nell’amore, dell’avarizia nell’affetto. In realtà, non si può parlare di amore quando c’è la gelosia, né di autentico affetto quando sopraggiunge l’avarizia. Si tratta della volontà di avere l’altro per se solo – gelosia – e del non condividere il bene che egli è ed opera con gli altri – avarizia – perché io sono l’unico proprietario dell’altro. Così facendo le persone, anche quelle che diciamo di amare, divengono delle cose, le stringiamo come un oggetto, senza accorgerci che, più le leghiamo a noi e più ne decretiamo la morte. Quante liti tra noi nascono per il desiderio di possedere l’altro che, a sua volta, vive come un peso e non come un segno dell’amore quel desiderio che diviene con il protrarsi oppressione insostenibile. Se desiderare i beni non serve, né tantomeno non condividerli, lo stesso vale anche in amore.
È importante guardarci dal desiderio di possedere sia le cose sia anche e soprattutto le persone perché questo non ci aiuta a vivere da creature libere. Da questo dobbiamo guardarci/fare attenzione, dice Gesù, da questo è necessario custodirci/tenerci lontano perché non basta schiacciare il tarlo che ci infesta il cuore una volta, bisogna sempre vigilare perché il nemico non si intrufoli quando inaspettatamente lasciamo aperta la porta del cuore. Gesù desidera che il suo discepolo viva libero da ogni tipo di condizionamento e che con la vita aiuti nel liberare i fratelli dalle schiavitù che ciascuno si porta dentro. Il Maestro indirettamente sta chiedendo a ciascuno di entrare in se stesso per vedere ciò che ci impedisce nel vivere da autentici discepoli, così da iniziare un cammino di introspezione per guardarsi in verità e non aver paura di essere come Mosè, uomini chiamati a liberare gli altri e al tempo stesso a liberare se stessi. L’Egitto lo portiamo nel cuore e finché non faremo verità non potremo dire di aver incominciato un serio e profondo cammino di conversione.
Un insegnamento per immagini: la parabola
Come esempio, il Maestro aggiunge una parabola su un ricco che, pago di un buon raccolto, ingrandisce i suoi magazzini, ammassa il suo grano perché crede che potrà poi godersi la vita (v. 19). È significativo che Luca presenti il soliloquio del ricco. Egli parla con se stesso, ragiona ed organizza, ma da solo, egli basta a se stesso, non si confronta, non ha bisogno di Dio e degli altri. Ripiegato totalmente su di sé non considera che i suoi beni potrebbe condividerli con i fratelli in difficoltà. La voce interiore del ricco fa pensare anche noi: quante volte, parliamo con noi stessi avendo come unico orizzonte il nostro solo interesse? Quante volte ci affatichiamo in ogni modo per opere che hanno solo un ritorno per noi, ma non una incidenza sociale, perché non pensate per gli altri? La voce di Dio (v. 20) serve per svegliare il ricco dall’illusione del suo sogno. Sì, la ricchezza, pur se reale nelle nostre mani, ci fa credere che possiamo conquistare il mondo, comprare tutto, quando, invece, non è così. La conclusione di Gesù è raggelante “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio” (v. 21). Si tratta dell’ultimo anello della catena del discorso del Maestro: la cupidigia genera la ricchezza, l’avarizia impedisce la condivisione, l’accumulo di beni ci impoverisce dinanzi a Dio. Siamo anche noi ad un bivio, vivere per sé oppure per gli altri? Accumulare per noi soli o pensare anche ai fratelli? Arricchirsi di cose o di virtù che ingrandiscono e rendono belo il cuore? La comunità cristiana ed ogni famiglia è il luogo dove l’altruismo dell’amore arricchisce l’altro fino al dono di sé. È questo l’annuncio gioioso del discepolo di Cristo anche in un mondo dove dilaga l’odio e la violenza. La logica della croce è quella che migliaia di giovani grideranno a Cracovia insieme a papa Francesco. Solo questa è la strada maestra solcata dal Signore che ci condurrà dritti nel cuore del Padre.