Commento al Vangelo di fra Vincenzo Ippolito ofm
Festa della SS. Trinità (Anno C) – 12 giugno 2022
Creato ad immagine e somiglianza di Dio, ogni battezzato vive un rapporto profondo ed intimo con le tre Persone divine. Ne siamo veramente consapevoli? Spesso pensiamo e ci comportiamo come se Dio fosse lontano. Nulla di più sbagliato. Gesù ci rivela il volto di Dio, Padre provvido ed amorevole e ci dona il suo Spirito, per entrare in comunione con Lui, che riempie la nostra vita di gioia.
Dal Vangelo secondo Giovanni (16,12-15)
Tutto quello che il Padre possiede è mio; lo Spirito prenderà del mio e ve l’annunzierà.
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Le domeniche che seguono la Solennità di Pentecoste, nel ritmo dell’Anno liturgico, celebrano due fondamentali misteri della fede cristiana: Dio uno e trino (SS. Trinità) e la Presenza reale di Gesù Cristo, nella santissima Eucaristia (Corpo e Sangue del Signore). Il cuore dei fedeli, in tal modo, è portato a considerare come le tre Persone divine siano la sorgente della grazia che trasforma la nostra vita, anche attraverso il Memoriale della Pasqua del Signore, nel quale il Salvatore diventa cibo e bevanda, per sostenere il nostro cammino. Se nel caso della solennità del Corpo e del Sangue del Signore il riferimento storico è al Giovedì santo, con l’istituzione dell’Eucaristia, per il mistero della santissima Trinità non c’è un evento specifico da celebrare, perché Dio permea, con la sua presenza, la storia degli uomini e la orienta verso la realizzazione del suo progetto di amore. Si tratta di una celebrazione particolare, rispetto alle altre, significativa, per il mistero di fede che richiama di considerare e, di rimando, di vivere.
Proprio perché tutta la storia sacra ha in Dio uno e trino la sua sorgente, la liturgia della Parola di oggi propone alcuni brani nei quali Dio, rispettando il cammino di comprensione del mistero da parte dell’uomo, gradualmente si fa conoscere, fino a giungere a Gesù Cristo che rivela in pienezza il volto di Dio. La Scrittura presenta, infatti, una sorta di teologia narrata, ripresentando l’esperienza che uomini concreti hanno fatto di Lui. Leggendo la Parola di Dio, infatti, non abbiamo una riflessione chiara e distinta dei misteri della fede, formulazione dei Catechismi, compilati, partendo dalla Parola di Dio scritta. Così, nella Prima Lettura (cf. Pr 8,22-31), l’autore del libro dei Proverbi ci parla della sapienza di Dio che presiede la creazione, la cui bellezza è cantata nel Salmo responsoriale (Sal 8). Nel brano scelto come Seconda Lettura, Paolo, scrivendo ai Romani (5,1-5), presenta Gesù Cristo come il mediatore potente, che ci dona l’accesso al mistero di Dio, per la grazia dello Spirito, effuso nei nostri cuori come amore. Nel Vangelo (cf. Gv 16,12-15), tratto dai discorsi di addio, Gesù ci mostra come la Trinità operi in perfetta comunione di volontà e di intenti, per donarci la salvezza e la gioia piena. Se nella creazione contempliamo l’opera di Dio, la fede ci porta a confessare Gesù Cristo come il Figlio di Dio, che ci dona lo Spirito, per vivere da figli del Padre.
Mai anticipare i tempi
È significativo notare, negli ultimi discorsi di Gesù, trasmessi dall’evangelista Giovanni, il desiderio di Cristo di parlare cuore a cuore con i suoi. Non vuole nascondere nulla e di buon grado apre il suo animo alla condizione e alla gioia della comunione, rivelando il mistero che Egli è e vive, con il Padre e lo Spirito. Sente in se stesso il desiderio insopprimibile di comunicarsi in pienezza e verità, ma guarda in faccia i suoi discepoli e comprende ciò di cui essi hanno veramente bisogno. In questo sta la maturità di una persona, nel guardare non solo il proprio bisogno o il desiderio di dire, ma anche la necessità dell’altro, la situazione che vive. Gesù parla sì, ma il suo dire è calibrato sulla capacità che gli apostoli hanno di comprendere la sua parola e di interiorizzare il suo insegnamento. La verità va sempre detta, con carità, ma ci sono tempi opportuni per comunicare e periodi meno indicati per parlare. Questo non significa che Cristo giochi al ribasso con i discepoli, ma che li ami veramente e desidera che la sua parola non li schiacci. Quante volte, invece, a noi capita di parlare senza guardare in faccia il fratello, cosa sta vivendo e cosa il suo cuore sente? Siamo convinti, guardando solo a noi stessi, che sia bene sempre parlare, sbattere in faccia la verità, gridarla, così da essere liberi, sgravati dal peso che soffoca il nostro cuore e poi l’altro può fare ciò che vuole, perché, così ci giustifichiamo noi: “io ti ho detto quello che penso, tu fai ciò che credi meglio!”. E la cura dell’altro, l’accompagnamento del fratello, la capacità di farsi prossimo, di sostenerci, nella difficoltà, e soccorrerci nel bisogno? Pensando solo a se stessi, chi si preoccupa dell’altro, che si fa carico della sua situazione, dell’angoscia che il cuore può vivere, della tristezza che il suo animo sente? Gesù è molto diverso da noi, perché, dimentico di sé, desidera e persegue il vero bene dell’altro, sempre. Per questo può dire: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso” (16,12). I discepoli devono accorgersi della propria incapacità ed accoglierlo non come uno stato permanente, ma come un passaggio obbligatorio, che può essere superato solo nella forza dello Spirito Santo. Cristo sente la necessità di comunicare altro e ne sente anche il desiderio, ma sa bene che i tempi non sono maturi, non è ancora scoccata l’ora, perché quella che sta vivendo è la sua ora, non quella dei discepoli. Questi, da parte loro, devono accogliere la loro momentanea incapacità, riconciliandosi con se stressi, guardandosi in verità, senza sentirne vergogna o ribrezzo, senza misconoscere la debolezza e nascondere il proprio limite. Ed è questo il passaggio che ora sono chiamati a fare: guardarsi in verità, accogliersi con umiltà, non scappare per viltà. Gesù li accompagna in questo passaggio, perché non si può raggiungere la vera maturità, senza abbracciare la propria creaturale povertà e sorridere di cuore di se stessi, sdrammatizzando e auto perdonandosi, se non è stata realizzata la meta della perfezione prefissata. Non c’è perfezione senza Cristo e neppure c’è possibilità di raggiungerla senza la sua grazia, convertendo la propria mente, per capire che solo l’amore ci rende perfetti come Dio è perfetto.
Tutti siamo chiamati a fare i conti con le nostre incapacità, anche se risulta importante comprendere che non sono loro a determinarci, ma a segnare le tappe nel reale e totale abbandono in Dio. Esempio di un tale difficile cammino è l’apostolo Pietro. Sempre in prima fila quando si tratta di fare prova di coraggio, deve, il più delle volte, ammettere la propria sconfitta, il suo dirsi capace delle imprese più grandi e belle dietro il Maestro, è sempre sconfessato dalla realtà. Come a Cesarea di Filippi, anche nella sera della consegna, ascoltando della dipartita del Maestro, vorrebbe seguirlo – “Signore, dove vai?” (Gv 13,36a) – e così davanti al freno posto dal Signore – “Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi” (Gv 13,36b) – il discepolo recalcitra – “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!” (Gv 13,37) – ma è proprio il Maestro – “Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte” (Gv 13,38) – a riportarlo con i piedi per terra, profetizzando come la realtà mostrerà la verità della sua incapacità. È quanto capiterà anche ai discepoli, chiamati da Cristo a condividere la sua preghiera, nel Getsemani, manifestano la propria incapacità e, appesantiti dal sonno, non riescono a portare il passo con il Signore (cf. Mt 26,40. 43). Il desiderio di Cristo di parlare e comunicare “le tante cose” ricevute dal Padre, deve fare i conti con la realtà della vita dei discepoli, le capacità ed incapacità, le durezze e le lentezze, così come dei momenti di luce e di gioia. Egli non si relaziona a ciò che pensa dei discepoli, non parte da quanto idealmente si attente da loro e da ciò che essi potrebbero offrire a Lui e a se stessi, ma da ciò che sono. È necessario partire dalla realtà di noi stessi, da quello che gli altri sono e vogliono essere. E lì che l’amore deve incarnarsi e manifestare tutta la sua forza e potenza. È vero, l’amore ha in sé la capacità di spingere la persona amata a migliorarsi, ma sempre nella gradualità offerta e nella consapevolezza, che genera la volontà del cambiamento e del miglioramento. Non è semplice partire da ciò che siamo, ma risulta essenziale in un cammino di verità e di maturità. In caso contrario, costruiamo sulla sabbia delle nostre illusioni, non sulla terraferma della realtà. Che poi la realtà non debba livellarci e dissolvere i sogni di Dio in noi, questo è chiaro, ma partendo da quello che siano, offrendolo consapevolmente al Signore, sarà Lui ad operare in noi le meraviglie che il suo Spirito opera in chi si pone nelle sue mani.
Questa dinamica che Gesù vive con ciascuno di noi deve diventare modello anche delle nostre relazioni. Siamo, infatti, chiamati ad accogliere la nostra povertà e a non chiedere a noi stessi e agli altri nulla che vada oltre le nostre attuali capacità. Dio si serve della nostra povertà ed abita la nostra debolezza. Se, al contrario, crediamo di offrire a Dio la nostra perfezione – che non esiste e noi ci illudiamo di poter raggiungere senza Dio – non troveremo mai la benevolenza del Signore. È importante che accogliamo i tempi della nostra crescita e della maturazione dei fratelli. Se non riusciamo ora a compiere dei passi in avanti, domandiamo a Dio la sua forza, perché ci doni il sostegno necessario. È inutile, in tal caso, indurirsi e credere che tutto sia perduto, perché il Signore accoglie le nostre lentezze e se ne serve, per rivelare la potenza della sua misericordia.
Il tempo dello Spirito
La nostra incapacità accolta è un grido di supplica al Signore Gesù, perché non ci lasci brancolare nel buio, offrendoci il soccorso della sua grazia e la gioia della sua visita. C’è, infatti, un quando, un tempo opportuno nel quale lo Spirito ci visita, offrendoci la compagnia di Dio e la possibilità di comprendere il mistero della sua vita, che determina poi una rivisitazione ed una più profonda e perfetta comprensione anche del mistero della nostra vita. Gesù confida ai suoi: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future” (16,13). Non sappiamo tutto ed è inutile far finta di essere edotti in ogni cosa. Abbiamo bisogno dello Spirito Santo, che Cristo completi in noi la creazione, con la grazia della sua redenzione, che perfezioni la sua opera, che completi il suo progetto. Per questo è venuto sulla terra, per rivelarci in pienezza il disegno del Padre. Al tal fine, l’effusione dello Spirito Santo che è amore ci rende capaci di operare e prima ancora di capire ciò che Dio è e quanto noi, in comunione con Lui e consapevoli della sua volontà, possiamo operare.
C’è un tempo in cui lo Spirito ci visita. Come è accaduto a Maria, con l’annuncio dell’Angelo, ai discepoli, il giorno di Pentecoste, così ci sono, anche della nostra vita, dei momenti opportuni di grazia, nei quali il Signore ci marca a fuoco e ci riserva per sé, come Paolo e Barnaba (cf. At 13,2). Ma quando viene lo Spirito della verità? Possiamo chiederci noi? Quando è il tempo stabilito dalla volontà del Padre, visto che anche l’Incarnazione e la redenzione avvengono secondo il prestabilito disegno di Dio. Questo non perché Dio si diverta a farci attendere la sua venuta, ma perché diventiamo capaci di accogliere il suo dono ed in gradi di metterlo a frutto. Ci sono gradi di maturità diversi che vanno ben vissuti. Lo Spirito riempie la vita degli apostoli, dopo che sono passati i giorni della Pasqua, e così fa anche con noi, per questo dobbiamo attendere i tempi di Dio, nella preghiera e nell’operosa attesa. Il tempo, non dobbiamo dimenticarlo, dipende anche da noi, perché più cresciamo nell’umiltà, nella confessione della nostra povertà, mettendo al bando la superbia e la vanagloria, più facilmente verremo abitati da Dio e dalla potenza del suo amore. La guida che Gesù ha promesso si attua in coloro che si lasciano guidare dallo Spirito e che, in quanto figli di Dio, per il dono del Paraclito, vivono la grazia della figliolanza. Difatti, lasciarsi portare dallo Spirito significa appartenere a Gesù Cristo e godere della gioia di essere figli del Padre, nel Figlio Gesù, per l’amore che Egli riversa nel cuore dei credenti. E poiché “È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore” (Fil 2,13), è sempre Lui che “vi guiderà a tutta la verità”. Questo significa che lo Spirito Santo è il nostro Maestro interiore, la Guida saggia che pazientemente ci attente e benevolmente ci accoglie, che silenziosamente attende il nostro Si e teneramente rende docile il cuore verso i fratelli da amare, con il cuore di Gesù.
Quanto è importante conoscere i tempi di Dio! Accorgersi del suo visitarci, farci portare dalla luce della sua visita e dalla potenza del suo amore! In ballo è tutta la volontà di Dio, come anche la conoscenza del nostro mistero, visto che più conosciamo Dio, in Cristo, maggiore è la consapevolezza che abbiamo di noi stessi, in quanto creati a sua immagine e somiglianza. Per questo non dobbiamo accogliere invano la grazia (cf. 2Cor 6,1), lasciandoci continuamente illuminare dalla luce del Paraclito. La verità di Dio e di noi stessi in Cristo è a nostra totale disposizione, se ci lasciamo guidare dallo Spirito, nei tempi fissati da Dio, nella disponibilità offerta, per scoprire la bellezza della figliolanza e entrare nel mistero del cuore del Padre. Si tratta di un cammino graduale, di un itinerario progressivo, nel quale “noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2Cor 3,18). Conoscere la verità è possibile non per via intellettuale, ma esperienziale: prima si vive il mistero dell’amore di Dio e poi si può descriverlo, diventarne consapevoli, anche se il linguaggio umano e le nostre categorie non saranno mai in grado di tradurre il mistero divino. Lo Spirito ascolta ed annuncia, prende dal mistero del Figlio e lo dona alle mente e al cuore degli uomini. Significativa è questa dinamica dell’ascoltare ed annunciare, incisiva anche nella nostra vita di discepoli, perché è questo il senso della nostra missione, ascoltare in Cristo la Parola di salvezza che il Padre ci dona e donarla agli altri, con un annuncio, che passa attraverso la nostra vita.
Abbiamo bisogno di saper discernere i tempi dello Spirito e di lasciarci da Lui guidare, con piena disponibilità, sulla strada della verità e dell’amore. Una conoscenza esperienziale significa che in famiglia ed in comunità, nei gruppi e nelle associazioni, nelle comunità religiose e nella catechesi ci è chiesto di dare visibilità all’annuncio che facciamo, che si sperimenti l’amore di cui parliamo, che non si parli per concetti, ma per esperienza fatta di Dio e del suo amore, della misericordia e del perdono che Egli dona. Solo così la Chiesa risplenderà nel mondo come primizia dei beni futuri e i credenti concretamente realizzeranno il monito del Signore: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). Il mistero della Trinità va spiegato, mostrando vite irradiate dal suo amore misericordioso, raggianti della sua luce, esistenze dalle quali ne promana, permeate dalla santità che ogni creatura raggiunge e vivifica, muovendo ogni germe di bene al suo naturale sviluppo.
Il Padre, fonte di ogni dono
Nei Vangeli non troviamo trattazioni teologiche della vita trinitaria, ma indicazioni incisive su come le Tre persone divine operano nella storia e conducono i credenti a vivere della sua stessa vita dell’amore. È la Trinità narrata negli eventi ciò che abbiamo nella Scrittura e di questo, massimamente i Vangeli sono una testimonianza importante. Nello sviluppo organico del nostro brano, vediamo l’opera del Figlio (14,12. 14), la venuta e la guida dello Spirito alla verità (14,13.14) per giungere poi al Padre, a cui appartiene ciò che è del Figlio e che lo Spirito dispensa ai credenti. Vediamo così il nesso che lega le tre divine Persone. Il fine è la redenzione dell’uomo, ma ciascuno coopera, in stretta unione con le Altre, nell’esplicare perfettamente il proprio compito, in quell’accordo mirabile che l’amore compie. La diversità, prima di tutto in Dio e, poi, di rimando in noi, è una ricchezza, non una limitazione. Lo diventa se le diversità non sono vissute come complementarietà e questo è possibile solo se il motore dell’unità di volontà e di intenti è l’amore. Il mistero della santissima Trinità dice tanto anche di noi, delle possibilità della nostra vita, della capacità di vivere i nostri rapporti lontani dalla logica del conflitto e della competizione, per armonizzare i doni ricevuti e far crescere tra noi ed in noi il desiderio di costruire insieme il futuro, secondo il piano di Dio. Questo significa celebrare la festa odierna: lasciare che gli ingranaggi personali e comunitari vengano mutati dalla forza dell’amore di Dio.